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Se ne stava con i suoi pensieri Lenticchia, mentre percorreva il lungo sentiero che lo avrebbe riportato finalmente a casa. Ripensava al suo amico coniglietto, alla sua famiglia, alle parole del Re coniglio e alla dolcezza infinita di mamma coniglio, quando d’un tratto precipitò in una buca profonda chissà quanti metri.

“Aiuto, aiuto, aiuto” Lenticchia urlava così forte che la gola cominciò a fargli male. “Aiuto, aiuto, qualcuno mi aiuti”, ma non c’era nessuno. Nessuno che potesse udire la sua richiesta.

Tentò così di arrampicarsi per cercare di risalire fino in superficie, ma il terreno era talmente scivoloso, che ad ogni passo, ricadeva a terra, costretto a ricominciare da capo la sua scalata.

Sconsolato e con qualche piccola ferita sulle mani e sulle ginocchia, si mise seduto, pensando a come poter uscire di lì. Non c’erano alternative, l’unica possibilità era che qualcuno passasse di lì per soccorrerlo.

Ma niente, tutto sembrava immobile, anche il canto degli uccellini si era interrotto, come se tutte le creature stessero trattenendo il respiro, in attesa che Lenticchia uscisse di lì.

Aprì così lo zainetto che aveva con sé e ricordò che Celeste gli aveva regalato una carta prima della sua partenza. Gli aveva regalato un Jolly, da usare al momento giusto, e quello sembrava proprio essere il momento giusto.

Gli tornarono in mente le parole della sua amica Celeste “Se lungo la strada ti servirà aiuto, tirala fuori senza esitare, osservala bene, poi chiudi gli occhi e immagina ciò di cui avrai più bisogno in quel momento”.

Lenticchia, senza pensarci su troppo, guardò la carta, chiuse gli occhi esattamente come gli aveva detto la sua amica, e cominciò a pensare a cosa potesse aiutarlo ad uscire di lì.

Gli vennero in mente tanti oggetti: una corda, un piccone, delle scarpe da arrampicata, anche una escavatrice che avrebbe potuto togliere tutta quella terra e farlo uscire, ma c’era sempre qualcosa che non gli tornava. Per la corda occorreva che qualcuno dall’altra parte la tenesse ferma e la legasse ad un albero; il piccone, sarebbe stato meglio usarlo in montagna, sulle rocce e non di certo su un terreno friabile come quello; e lo stesso per le scarpe da arrampicata, per non parlare poi della escavatrice, che come la corda, necessitava della presenza di qualcun altro, che da fuori avrebbe dovuto manovrarla, e là fuori sembrava non esserci proprio nessuno.

“Ci sono!” esclamò Lenticchia. “Un Ragno! Se mi trasformassi in un ragno, potrei risalire senza alcuna difficoltà e passo dopo passo, tornerei finalmente in superficie”.

Così Lenticchia chiuse gli occhi, fece un bel respiro e cominciò ad immaginare nella sua testa un ragno bellissimo. Ad ogni respiro dava una pennellata di colore al suo ragnetto, che ora aveva tutte le sfumature dell’arcobaleno ed era di una tale bellezza che tutti, proprio tutti ne sarebbero rimasti affascinati.

Ed ecco che, con le sue otto zampette, ora il Ragno-Lenticchia risaliva passetto dopo passetto, senza alcuna fretta quel grosso buco nel quale era caduto e… oplà, con un saltello, eccolo di nuovo in superficie.

Un brivido di freddo, poi un altro e un altro ancora, percorse il suo piccolo corpicino da ragnetto, e come nelle fiabe, improvvisamente si trasformò ancora, tornando ad essere il bambino Lenticchia, che ora poteva riprendere il suo cammino verso casa.

R. Ragno. Salta, dondola e rimbalza. Cade giù e si rialza. Tesse zitto la sua tela, tu avvicinati con cautela.